Borgo Piave: un forno, una comunità, una storia

Il profumo del pane appena sfornato, il calore del forno, il vociare della gente: un'atmosfera che riporta a tempi lontani, quando la vita scorreva al ritmo dei lavori nei campi e il forno comunitario era il cuore pulsante di ogni borgo.

Nel cuore del Salento, immerso tra gli ulivi colpiti dalla xylella e le distese dei campi, sorge Borgo Piave. Nato all'inizio del Novecento come ambizioso progetto di colonizzazione, questo piccolo borgo ha visto la sua storia intrecciarsi con quella di un forno, simbolo di una comunità unita e laboriosa.

Costruito nei primi anni Venti dall'Opera Nazionale Combattenti, il forno di Borgo Piave (ce n'era anche un altro nel borgo) oggi era più di un semplice luogo dove cuocere il pane. Si trattava di un modulo architettonico caratteristico, coperto da un tetto e dotato di un comignolo che svettava verso il cielo. Il forno, costruito in muratura con un piano di cottura in mattoni e chiuso da uno sportello di ferro, era preceduto da un vano coperto, dove gli abitanti preparavano e appoggiavano le cose da cuocere. Era il centro nevralgico della comunità, un luogo di condivisione di gioie e fatiche, e di trasmissione delle tradizioni. Le donne del borgo, con le loro mani esperte, impastavano la farina, creando pani di diverse forme e dimensioni, mentre spesso erano gli uomini che si occupavano di accendere il fuoco e di regolare la temperatura del forno. La legna necessaria alla cottura era portata dalle famiglie stesse a turno, che si accordavano per cuocere il pane in un giorno prestabilito. Una volta ass le fascine e scaldato il piano di cottura, le braci venivano sistemate ai lati per lasciare spazio agli impasti, e il piano veniva accuratamente pulito dai residui di brace per evitare che alterassero il sapore del pane. Chiuso lo sportello di ferro, si attendeva pazientemente il tempo della cottura.

Anche intorno al forno si svolgeva la vita del borgo, la cui storia è legata a doppio filo con quella dei progetti di bonifica del territorio. Fu infatti l'Opera Nazionale Combattenti che nel 1921, prima quindi dell'epoca fascista, avviò la costruzione del borgo e dei forni per dare una casa e alcuni servizi ai contadini, agli operai della bonifica e poi ai coloni provenienti da tutto il Salento. Con la bonifica, oltre a mettere a frutto terreni paludosi e improduttivi, si avviava anche una dura lotta alla malaria, una malattia che affliggeva da secoli le popolazioni rurali. Nel periodo fascista poi si radicò anche una forte componente ideologica: la bonifica e la coltivazione di nuovi terreni veniva considerata simbolo dell'“autarchia”, della forza e della determinazione del regime. I veterani di guerra, considerati eroi nazionali, furono i primi destinatari delle terre bonificate, trasformandoli in pionieri di una nuova ruralità. Il borgo, infatti, sorse come luogo dove i combattenti della Grande Guerra possono trovare una nuova casa e ricominciare una vita. Il forno, in questo contesto, rappresenta un elemento fondamentale per l'autosufficienza della comunità. Un servizio messo a disposizione delle famiglie, in un periodo in cui i trasporti verso la città erano difficili e irregolari e non potevano garantire l'approvazione del pane.

Borgo Piave, così fu chiamato, prendeva il nome dal fiume che scorre tra Friuli e Veneto, luogo simbolo della resistenza italiana durante la Prima Guerra Mondiale di fronte al nemico. L'ONC, giunta a Frigole nel 1920 sotto la guida di Antonio Sansone, si impegnò da subito nella costruzione di infrastrutture per migliorare le condizioni di vita dei contadini e degli operai. Non si trattava solo di edifici residenziali per i lavoratori e le loro famiglie, ma di un vero e proprio sistema di supporto alla comunità: vennero realizzati quindi il forno sociale, magazzini, pozzi. Dopo la realizzazione dei primi edifici nel 1922, nel 1930 furono inaugurate sette case coloniche, mentre nel 1933 fu aperta una scuola elementare. Successivamente, nel 1935, le abitazioni originali vennero sopraelevate per accogliere nuove famiglie e intorno al 1940 alcune di queste strutture ospitarono i marinai del presidio della Marina Militare, tanto che il complesso prese il soprannome di “case della Marina”, usato ancora oggi.

Con l'arrivo dell'Ente Riforma negli anni '50, il borgo continuò a crescere con la costruzione di nuove case e della chiesa, realizzata nel 1957 grazie all'impegno della comunità e di don Fortunato Pezzuto. Negli anni successivi, Borgo Piave ha continuato subito profonde trasformazioni.

Negli anni sessanta è iniziato il progressivo abbandono delle attività agricole e di conseguenza lo spopolamento del borgo. Lo sviluppo industriale, l'urbanizzazione ei cambiamenti nelle abitudini delle persone hanno portato al disuso del forno comunitario, che è stato gradualmente abbandonato. Tuttavia, il ricordo di quel luogo e delle tradizioni ad esso legato continua a vivere nel cuore degli abitanti del borgo.

Oggi, Borgo Piave si trova a dover affrontare le sfide della contemporaneità, cercando di valorizzare il proprio patrimonio storico e culturale e di promuovere un turismo sostenibile. Il forno comunitario, in questo contesto, può rappresentare un punto di partenza per riscoprire le proprie radici e ricreare un senso di comunità. In un mondo sempre più frenetico e individualista, riscoprire il valore dei luoghi e delle relazioni è fondamentale. Il forno di Borgo Piave ci invita così a riflettere sul nostro passato ea costruire un futuro più sostenibile e umano.

Bosco della Cervalora

Dalla foresta ai campi: il volto del Salento che cambia

Chi avrebbe mai immaginato che nel cuore del Salento, tra Otranto e Brindisi, si estendesse un tempo una vasta foresta? La Foresta di Lecce, così si chiamava, copriva un'ampia area; un manto verde che contrastava nettamente con l'arido paesaggio che oggi caratterizza la nostra regione. Di quella rigogliosa distesa, restano ancora solo piccoli frammenti, come il Bosco di Cervalora, una lecceta spontanea nascosta lungo la strada che porta a Frigole. La sua vegetazione è molto simile a quella del Bosco di Rauccio, ed è gestita con il metodo del "ceduo", che prevede il taglio periodico degli alberi per favorirne la ricrescita. Entrambi i boschi rappresentano ciò che resta dell'antica foresta medievale tra Lecce e il mare e hanno un grande valore storico e scientifico, supportandoci a immaginare la vegetazione e quindi anche il paesaggio originario della zona.

L'aspetto attuale del territorio, molto semplificato, è cambiato intorno al Settecento, quando l'impatto antropico è aumentato e l'economia locale si è focalizzata sull'agricoltura, in particolare sulla coltivazione degli ulivi e sulla produzione di formaggi legati al pascolo. Molti boschi sono stati abbattuti dalla popolazione locale per ricavare legna da ardere e per fare spazio a un'agricoltura più intensiva.

Alla fine dell'Ottocento, però, si potevano ancora vedere ampie tracce dell'antica foresta e del bellissimo bosco di Belvedere nel centro del Salento, al punto che alcuni paesi, come Nociglia e Supersano, erano specializzati nella produzione di carbone vegetale. I resti di questa antica distesa verde, sono oggi nascosti all'interno di alte mura di proprietà privata. Nel tempo, la varietà di piante e animali nell'area è diminuita ulteriormente a causa di incendi ripetuti e dell'erosione dei terreni privi di copertura vegetale. Questo ha portato alla diffusione della gariga, un tipo di vegetazione considerata molto più povera e degradata rispetto alla foresta di lecci originaria, la quale rappresenta comunque un discreto indicatore della salute ambientale, poiché mostra che, in anni favorevoli e senza fattori stressanti, potrebbe essere possibile recuperare le piante originali. Questo processo potrebbe portare a un passaggio dalle piante più semplici a quelle più complesse della macchia mediterranea, fino a raggiungere la foresta di leccio, che rappresenta lo stato finale di questo ecosistema. Purtroppo però, ancora oggi il bosco subisce un po' di degrado a causa del diradamento eccessivo del sottobosco (cioè il taglio di piante e cespugli), fatto per facilitare la caccia.

Il suolo è costituito da calcarenite pleistocenica e il clima è particolarmente caldo e secco, ma nonostante queste condizioni difficili, la vegetazione del Bosco di Cervalora ha dimostrato una grande capacità di adattamento nel tempo, preservando oltre alle specie come il leccio, anche altre querce, tra cui la roverella e la virgiliana che perdono le foglie più tardi nell'anno, e in particolari condizioni, l'olmo campestre. Immerso in un contesto agricolo, il paesaggio è caratterizzato da un sottobosco denso e vario. Questa fitta vegetazione, tipica della macchia mediterranea, ospita numerose specie che hanno sviluppato straordinarie capacità di adattamento all'ambiente ostile. Per sopravvivere in queste condizioni, le piante hanno messo in atto diverse strategie e infatti il ​​pungitopo si difende con spina dorsale, il lentisco produce resina, mentre mirto e lentisco hanno foglie coriacee per ridurre la traspirazione. Ginestra e ginestrella, invece, attirano gli insetti impollinatori con i loro fiori gialli. Nonostante le differenze, tutte queste specie presentano adattamenti xerofitici, come radici profonde e portamento cespuglioso, che permettono loro di sopravvivere alla siccità. Tra le specie di particolare interesse, troviamo la Stipa austroitalica, che cresce solo in alcune aree.

Queste piante, insieme ad altre specie arbustive ed erbacee, creano un microclima favorevole e offrono cibo e riparo a moltissimi animali. Tra i rettilinei, oltre al colubro leopardino e al cervone, possiamo trovare lucertole, biacchi e rospi smeraldini, e in alcune zone, la testuggine palustre. Essi sfruttano le fessure tra le rocce, i tronchi e la vegetazione per termoregolarsi e cacciare insetti. L'avifauna è estremamente ricca e diversificata: oltre ai passeriformi come il pettirosso, vi sono molte altre specie che nidificano tra i rami degli arbusti o nelle cavità degli alberi, come i colorati cardellini ei fringuelli. Piccoli mammiferi come il riccio trovano cibo e rifugio in questo ambiente, ma anche specie più grandi come la volpe e il tasso possono occasionalmente avventurarsi in queste zone, soprattutto di notte. Non dimentichiamo i pipistrelli, che utilizzano gli alberi come nascondiglio e le api, le farfalle, i coleotteri e molti altri insetti che svolgono un ruolo fondamentale nell'impollinazione delle piante e nelle catene alimentari.

Grazie alle Direttive europee, abbiamo un quadro abbastanza chiaro delle specie presenti e della loro importanza per l'ecosistema. Inoltre, molte di queste specie sono protette perché svolgono un ruolo chiave nell'equilibrio dell'ecosistema o perché sono a rischio di estinzione. Il Bosco di Cervalora è riconosciuto come Sito d'Importanza Comunitaria (SIC) per il suo valore naturale ed è inserito nella rete Natura 2000, che comprende zone di protezione speciale e aree di conservazione importanti per l'Unione Europea. La gestione del sito è affidata alla Regione Puglia, che ha predisposto un piano specifico per la sua tutela e conservazione. La trasformazione del paesaggio è un processo complesso e dinamico, influenzato da fattori naturali e antropici. Il Bosco di Cervalora ci mostra come l'azione dell'uomo possa avere effetti a lungo termine sull'ambiente. È necessario adottare un approccio multidisciplinare e integrato per comprendere appieno questi processi e per mettere in atto strategie di gestione sostenibile del territorio.

Sulle terre arse, la Scilla fiorisce

Chi vive a Frigole o frequenta le campagne circostanti conosce bene le lande aride e sassose che, durante l'estate, sembrano perdere ogni segno di vita, specialmente dopo i devastanti incendi che sono sempre più frequenti. Ma c'è una pianta che, contro ogni aspettativa, non solo sopravvive, ma si erge fiera e rigogliosa tra le macerie carbonizzate: la Scilla marittima, una pianta che riesce a fiorire anche nelle condizioni più avverse, richiamando l'attenzione di chiunque passi da quelle parti.

Fiorisce tra agosto e settembre, proprio quando l'estate sta per finire e le prime piogge autunnali iniziano a bagnare la terra secca. È in quel momento che vediamo innalzarsi i suoi scapi fiorali, lunghi e dritti, come candele che possono arrivare fino a due metri di altezza. I fiori sono piccoli, bianchi e raggruppati in grappoli che si sviluppano progressivamente, dal basso verso l'alto, regalando uno spettacolo unico a chi osserva il paesaggio. Le foglie, che emergono solo dopo la fioritura, formano una rosetta basale verde e spessa, che dura fino all'inizio dell'anno successivo.

Con il ritorno della stagione arida, le foglie seccano, completando il ciclo vitale della pianta, che si prepara così a resistere alle condizioni più avverse. Come anticipato, una delle caratteristiche più sorprendenti della Scilla marittima è, infatti, la sua capacità di sopravvivere al passaggio del fuoco. Durante gli incendi estivi, il calore può bruciare le foglie secche e persino la parte più esterna dei suoi grossi bulbi, ma la pianta non viene intaccata nella sua vitalità.

Il nome Scilla evoca la tragica figura della ninfa trasformata in un mostro marino. Innamoratasi di Glauco, Scilla chiese alla maga Circe un filtro d'amore, ma la rivale, gelosa, le sommenistrò un veleno che la mutò in una creatura orribile, con sei teste di canna e un corpo metà donna e metà pesce. Condannata a vivere nelle caverne marine, Scilla divenne un pericolo per i naviganti, divorando chiunque osasse avvicinarsi.

Come la Scilla mitologica, anche la pianta nasconde diversi aspetti pericolosi: i suoi bulbi sono velenosi tanto che, in passato, venivano usati per la pesca di frodo nei torrenti per le loro proprietà ittitossiche. Inoltre, il contatto con i suoi bulbi può provocare irritazioni alla pelle e agli occhi a causa della presenza di ossalato di calcio. Usata in dosi controllate, la pianta ha proprietà medicinali. Nell'antichità, il bulbo di Scilla era molto apprezzato per le sue proprietà cardiotoniche e diuretiche, tanto che veniva impiegato per trattare scompensi cardiaci, asma e idropsia. Plinio il Vecchio e Teofrasto ricordano l'uso della Scilla nelle cerimonie espiatorie e per allontanare i sortilegi. Nella tradizione popolare, soprattutto in Sardegna, il bulbo della Scilla veniva utilizzato come amuleto contro i malefici, appeso sopra le porte delle case. In altre culture, veniva piantato sulle tombe per proteggere i defunti e si credeva che avesse poteri per guarire la follia.

Ed è proprio questa dualità tra bellezza e pericolosità che ha affascinato poeti come Louise Glück, che nella sua opera 'Iris selvatica' le attribuisce una voce profonda e riflessiva. In particolare, la poetessa attribuisce alla pianta una voce propria, invitandoci a riflettere sulla nostra condizione di esseri umani e sul nostro rapporto con il mondo naturale. La Scilla, con la sua umiltà e la sua forza, ci ricorda che anche le creature più piccole possono insegnare molto sulle grandi domande dell'esistenza. Come scrive Glück: 'Non io, idiota, non il sé, ma noi, noi: onde di blu-cielo come una critica del paradiso'. La pianta, con le sue radici affondate nella terra ei suoi fiori rivolti al cielo, ci invita a 'essere pressoché nulla', a riconoscere la nostra piccolezza di fronte alla vastità della natura. Eppure, proprio in questa apparente insignificanza, troviamo una grande forza e una profonda bellezza.

La forchia te la milogna

Un pugnale di osso, denti e ossa di animali, punte di lancia, asce e frecce. Furono ritrovati nel 1995 in una grotta preistorica nei pressi di Frigole, località Sao, esplorata dal gruppo speleologico 'Ndronico su mandato del giudice Valeria Mignone. La grotta era già conosciuta da tempo dai contadini del luogo, che la chiamavano “Forchia te la Milogna” ovvero Fossa del Tasso. Molto probabilmente ci sarà stato altro, ma la grotta era già stata spogliata da visite precedenti. L'Ecomuseo delle Bonifiche di Frigole ha intervistato sul posto alcuni anni fa i proprietari del terreno in cui si trova, scoprendo altri particolari.

Mamma li Turchi: Le Masserie del Salento tra incursioni e trasformazioni storiche

1714, è giugno. Alla masseria la giornata inizia presto, i contadini si preparano ad andare nei campi quando ancora è buio.

All'improvviso un trambusto inatteso, grida, rumori confusi. I pirati hanno assalito la masseria, sono sbarcati col buio per approfittare della sorpresa e non trovare resistenza. I portoni sono già aperti, non c'è difesa, non c'è un ponte levatoio da ritirare in fretta.

La Lamia non è una masseria fortificata, ma un placido edificio rivolto verso il mare con un grande cortile dove vivono e lavorano nel periodo primaverile quasi quaranta persone. Nessuno resiste, non ci sono armi e armigeri, soltanto il fattore e contadini indifesi. Vengono fatti tutti prigionieri e trasportati sulla nave per essere venduti come schiavi sui mercati del mediterraneo. Le fornite di grano, il vino, i legumi, frutto dei recenti raccolti, vengono ammassati sul caicco. I pochi oggetti di valore sono portati via.

I pirati si dirigono poi verso Acaya, perché pensano di assaltare il castello contando sulla sorpresa, ma restano delusi. Ad Acaya sono stati avvertiti da un contadino che era andato più presto nel campo e aveva guardato da lontano la scena della razzia. Il portone qui è chiuso, il ponte levatoio alzato, i contadini si sono già tutti rifugiati nel castello che non può essere preso per le sue alte mura.

Li Turchi si accontentano e vanno via.

Un attacco pirata, quello del 1714, che seppur violento, non segnò la fine della masseria Lamia. La masseria fu presto ripopolata e tornò a svolgere la sua funzione di centro produttivo. Tuttavia, le vicende di questa masseria riflettono un destino comune a molte altre strutture simili che, nel corso dei secoli, hanno subito profonde trasformazioni, lasciando segni stratificati, testimonianze di epoche diverse e di varie culture. Ogni traccia del passato si collega a un complesso intreccio di fenomeni: dalle influenze culturali e politiche, alle caratteristiche geografiche, alle necessità economiche e religiose, fino all'organizzazione delle attività produttive.

La pianura salentina, grazie alla sua conformazione, si è rivelata facilmente adattabile ai vari modelli di governo e organizzazione territoriale, conservando fino ad oggi molte di queste testimonianze. Le masserie, simbolo del modello agricolo salentino, rappresentano il risultato di secoli di evoluzione.

La loro origine potrebbe essere ricondotta alla colonizzazione romana, che introdusse la centuriazione e strutturò la pianura in una serie di piccoli appezzamenti. Con l’avvento del monachesimo italo-greco dopo la caduta dell'Impero Romano, le comunità monastiche basiliane diventarono punti di riferimento per la riorganizzazione agricola, come isole di attività e ordine in un periodo di incertezza. Su queste basi, prese forma il modello salentino, fatto di piccoli nuclei abitativi distribuiti a breve distanza l’uno dall’altro, rafforzato poi durante la dominazione dei Normanni e degli Svevi, che pur centralizzando il potere, mantennero questa struttura policentrica.

Le masserie salentine, le quali prendono il nome dalle “masserizie” (oggetti per la casa, mobili, attrezzi vari, magazzini di alimenti per uso umano ed animale), erano strutture multifunzionali che ospitavano sia le abitazioni per diverse classi di abitanti (padroni, contadini, pastori) sia spazi per animali e attività agricole. Ogni masseria era ben integrata nell'ambiente circostante, con un'architettura adattata alla zona, alle esigenze difensive e ai tipi di coltivazioni praticate.

In genere, le masserie nel Salento erano di piccole dimensioni, con strutture essenziali per la vita contadina, a differenza delle grandi masserie presenti in altre aree del Sud Italia. Le corti erano elementi fondamentali, spesso delimitate da muri in pietra secca. Gli spazi erano organizzati in modo funzionale, con pozzi, cisterne per l'acqua, magazzini, stalle, forni e, in alcuni casi, cappelle o mulini aperti anche agli estranei.

A seguito delle continue incursioni piratesche che seguirono la caduta di Costantinopoli, le masserie salentine, un tempo semplici fattorie, si trasformarono in complesse strutture difensive. Carlo V, preoccupato per la sicurezza del territorio, ordinò la costruzione di torri di avvistamento e di mura robuste intorno a questi edifici. La torre, oltre a servire come punto di osservazione, era spesso l'abitazione del proprietario. Al piano inferiore si svolgevano le attività produttive: la trasformazione del latte, la molitura delle olive e la conservazione dei prodotti agricoli. Le masserie assunsero così una forma fortificata per proteggere le persone e le risorse, diventando centri di produzione sicuri e autosufficienti.

Tra il XVI e il XVII secolo, l'arrivo dei Borboni nel sud Italia ne segnò un'ulteriore trasformazione. Essi espropriarono i feudi ecclesiastici, affidando i latifondi alla borghesia rurale. Le masserie si strutturarono come complessi di edifici rustici e terreni gestiti da un massaro, il quale coordinava il lavoro dei contadini per conto dei proprietari.

Dalla metà del XVII secolo, queste strutture assumono un ruolo sempre più centrale nella vita rurale, svolgendo molteplici funzioni: centri agricoli, depositi, aziende, presidi militari e, in periodi di crisi sanitaria, anche luoghi di assistenza. Questa multifunzionalità si riflette nell'architettura, che si fece sempre più complessa e ricca di elementi decorativi, culminando nella nascita delle masserie-villa, vere e proprie dimore signorili.

Le masserie cominciarono il proprio declino con la legge eversiva della feudalità del 1806, voluta da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli. A questo si aggiunse, nel 1866, l'esproprio dei beni ecclesiastici da parte del governo italiano, che portò alla frammentazione delle grandi proprietà feudali o ecclesiastiche. Successivamente, la divisione ereditaria, che non seguiva più il principio del maggiorascato, contribuì ulteriormente alla decadenza di queste strutture. Oltre agli impatti delle leggi, il progresso agricolo trasformò gradualmente la coltivazione estensiva, prevalentemente cerealicola e pastorale, in una coltura intensiva, sia arborea sia erbacea. Originariamente, la produzione delle masserie salentine era di tipo cerealicolo, affiancata dalla pastorizia, con l'allevamento principalmente di ovini, seguito da bovini ed equini. Alla masseria poteva essere annessi oliveti e, talvolta, boschi, e il bestiame veniva alimentato quasi esclusivamente dai pascoli naturali.

Nel XX secolo, dopo le guerre mondiali, le condizioni dei contadini peggiorarono, portando alla necessità di una Riforma Agraria che, frazionando e ridistribuendo i latifondi, cambiò profondamente la vita delle masserie: molte furono abbandonate o destinate a usi diversi, perdendo così il loro ruolo aggregante e il carattere originario.

Questi mutamenti segnano il declino di un patrimonio culturale che, spesso trascurato, è andato lentamente perdendosi, senza che venisse pienamente compresa la ricchezza che si stava lasciando svanire. Fortunatamente, alcune masserie hanno resistito allo scorrere del tempo e alle trasformazioni sociali, testimoniando ancora oggi i sacrifici, il lavoro e le passioni dei contadini di un'epoca non così lontana.

Scavi Giammatteo

Le tre grandi bonifiche, più una, del territorio di Frigole

Ora fissiamo tre periodi: 1870-1888, 1904-1913, 1931-1936. Lì dentro sono collocate tre grandi bonificazioni: la prima di Federico Libertini, bonifica privata, le altre due finanziate dallo Stato. Dunque il volto del territorio e, con esso, la sua storia, incominciarono a cambiare con Libertini (1870-1888), ebbero poi una notevole modifica all'inizio del Novecento (1904-1913), ma soprattutto furono “rivoluzionati” dagli interventi degli anni Trenta (1931-1936) con l'Opera Combattenti.

E il “più una” del titolo? Fu una bonifica particolare degli anni 1907-1912 operata dai “Fondi Rustici”, società proprietaria del circondario di Frigole guidata allora da Antonio Sansone. Consistette nel costruire all'interno di limitate paludi e acquitrini i cosiddetti “pozzi assorbenti”: erano larghi fori nel terreno in corrispondenza di doline naturali, dotati di idonea muratura, profondi fino a superare lo strato di terreno impermeabile, in modo che l'acqua potesse scendere ed essere smaltita e il terreno in superficie potesse essere coltivato. Ne furono costruiti una cinquantina e l' “invenzione” funzionò quasi sempre.

Libertini spese ingenti capitali per acquistare macchinari agricoli, assoldare mano d'opera esperta, rendere fertili le campagne, costruire canali per far defluire in mare l'acqua delle paludi. Economicamente fallì, ma la sua visione di bonifica fu ammirata e portata avanti. Di quel periodo restano la conformazione attuale della masseria Frigole, simile a una palazzina, e i cosiddetti “quadri” di terreno circondati da ulivi.

Alla grande bonifica di inizio Novecento furono dedicati progetti, personale, anni di lavoro. L'emblema di quel complesso intervento è la ciminiera che svetta ancora sopra l'impianto idroforo accanto al mare.

Ma il lavoro più lungo e impegnativo fu la realizzazione della rete di 27 km di canali, in gran parte sotto il livello del mare. Appunto questi ultimi portavano l'acqua da smaltire in mare all'impianto idroforo, che fu collegato anche con il vasto lago-stagno dell'Aquatina (allaccio che però creò problemi e che negli anni Venti fu accantonato). ù

Nel 1920 divenne proprietaria del territorio l'Opera Combattenti, diretta da Antonio Sansone, che diede vita ad un grandioso programma di interventi, in ogni settore. Sede operativa era Frigole, con nuovi, lunghi caseggiati col solo piano terra ed alcuni altri (stalle, magazzini...), che ancor oggi costituiscono il centro del paese; fu costruito in mezzo alla campagna Borgo Piave e via via negli anni Borgo Grappa e i “poderi” sparsi. Furono operate enormi bonifiche, tra cui il nuovo lago-bacino dell'Aquatina. Case coloniche e terra furono assegnati ad ex-combattenti... Per Frigole e il suo territorio con il 1920 ebbe inizio una nuova identità.

Matrima chiangia… e chiangia, ogni notte chiangia

Nel 2013 Maria Vita Saracino ha narrato la sua storia dalle colonne del giornalino del CUFRILL (Voci da Frigole e dal Litorale).

La famiglia Saracino era originaria di Borgagne ma viveva in precedenza a Martano. Maria Vita non aveva potuto andare a scuola perché il padre Giovanni non lo aveva permesso “Tu devi aiutare la mamma che non sta bene”. Allora anche i bambini dovevano lavorare e aiutare così la famiglia, perché c'era poco da mangiare e tutte le braccia, anche le più esili, dovevano contribuire a racimolare il necessario per tirare avanti.

Maria Vita ricorda nel suo racconto che quel primo inverno del 1939 a Frigole fu terribile. Il podere 33 è il più vicino al mare, a pochi passi dalle Idrofore, e in quell'anno il vento e le tempeste del mare danno gli incubi alla mamma Paola, che vede “i cavallini arrivare fino al cielo “ e ha paura che li sommerga tutti. La famiglia Saracino, ha però deciso di resistere alle difficoltà e alle paure, ma la sorte è stata avversa e nel 1941 il papà Giovanni muore di polmonite, lasciando la moglie e sei figli. “Per noi fu il deserto - ha raccontato Maria Vita - Rimanemmo sole come cani, anche perché mio fratello Luigi era prigioniero in Albania. Ritornerà a casa dopo due anni e mezzo, con la barba ei capelli incolti ……. irriconoscibile. ….. La mamma era distrutta e non la lasciavo mai sola. A volte era presa dallo sconforto e voleva buttarsi a mare.

Ancora Maria Vita ha raccontato: “Io in casa ero rimasta la più grande e lavoravo lavoravo… non ti voglio raccontare quanto era dura la mia vita, sempre fucendu estate e inverno”. Nel 1948 Maria Vita sposa Pantaleo Gaetani, di Calimera, persona forte e gioviale e comincia una nuova vita, nascono i figli Giovanna, Antonietta e Michele finché nel '56 l'Ente Riforma, subentrato all'Opera Nazionale Combattenti, assegna alla famiglia Gaetani il podere su via Giuseppe Della Vedova. La vita migliora, si vive felici finalmente, sempre lavorando ma senza più le ristrettezze di un tempo.

Maria Vita ha vissuto in quella casa oltre i 90 anni, circondata dall'affetto dei suoi cari. Le bonifiche fi Frigole hanno portato prosperità ma al prezzo di grandi sacrifici e hanno richiesto una forte ostinazione. Maria Vita Saracino e la sua famiglia hanno saputo sopportare la sofferenza e vincere la loro battaglia.

Dolci tentazioni: Bomboloni alla crema di patate zuccherine

Cerchi un dolce fatto in casa che stupisca i tuoi ospiti? I bomboloni alla crema di patate zuccherine sono la risposta perfetta! Questa ricetta, un connubio tra tradizione e innovazione, ti permetterà di preparare dei soffici e golosi bomboloni con un cuore cremoso e delicato. La dolcezza della patata zuccherina si sposa alla perfezione con la freschezza del limone, creando un'esplosione di gusto ad ogni morso.

Ingredienti

Per la crema:

- 120 gr di patata zuccherina già lessa;

- 500 ml di latte;

- 30 gr di farina di frumento;

- 2 uova;

- buccia grattugiata di un limone.

Per l'impasto:

- 320 gr di patate zuccherine già lessate;

- 500 gr di farina;

- 2 uova;

- 50 gr di burro;

- 25 gr di lievito fresco o 7 gr di lievito disidratato;

- 40 gr di zucchero;

- 50 gr di latte;

- buccia grattugiata di un limone o di un'arancia grattugiata.

Preparazione

Preparare l'impasto: In una ciotola, unisci tutte le patate zuccherine lessate e schiacciate, la farina, le uova, il burro, il lievito, lo zucchero, il latte e la scorza grattugiata. Impasta fino ad ottenere un composto liscio e omogeneo. Lasciare lievitare in un luogo caldo e coperto per circa 3 ore, fino al raddoppio del volume.

Prepara la crema: In una pentola, versa il latte già caldo, la farina, le uova, la patata zuccherina schiacciata e la scorza di limone. Mescola bene con una frusta per evitare grumi. Cuoci a fuoco dolce fino a bollore, mescolando continuamente, fino a ottenere una crema densa e vellutata. Lasciare raffreddare completamente.

Assembla i bomboloni: Stendi l'impasto lievitato con un mattarello e taglia dei dischi di circa 8-10 cm di diametro. Metti un cucchiaio di crema al centro di ogni disco. Chiudi con un altro dischetto formando le palline, facendo attenzione a saldare bene i bordi.

Friggi i bomboloni: Friggi i bomboloni in abbondante olio caldo fino a doratura. Scolali su carta assorbente e passali nello zucchero semolato.

Questi soffici bomboloni alla crema di patate zuccherine sono il dolce perfetto per ogni occasione. La loro preparazione richiede un po' di tempo, ma il risultato finale ripagherà ogni sforzo. Prova questa ricetta e lasciati conquistare dal loro sapore unico!

Federico Libertini: il pioniere delle bonifiche a Frigole

Federico Libertini fu lo straordinario personaggio che diede inizio alla storia moderna di Frigole.

Nato a Lecce nel 1825, vi morì nel 1903. Avvocato, figlio di Domenico sindaco della città dal 1821 al 1823 e cugino del famoso Giuseppe amico di Mazzini e Garibaldi, a oltre quarant'anni di età lasciò codici e tribunali per dedicarsi anima e corpo alla trasformazione delle masserie Frigole, Lamia, Casa di Simini. Spirito innovatore in un mondo agricolo legato per lo più a idee e metodi vecchi e inefficienti, investì ingenti capitali nell'assoldare tecnici e operai di tutta Italia, nell'acquistare macchinario di ultimo grido, nel rinnovare gli edifici, nel dissodare terre improduttive, nel prosciugare paludi costruendo una rete di canali, nello sperimentare coltivazioni nuove (ancor oggi presso Frigole fanno bella mostra di sé i cosiddetti “quadri”, vasti rettangoli di terreno circondato da ulivi che Libertini aveva destinato alla coltivazione della vite)...

L'attività particolarmente su tutti i fronti fu intensa nel decennio 1870-1880. Ma non tutto andò per il verso desiderato e poco dopo il 1890 il “sogno” di Libertini, come si scrisse alla sua morte, svanì a causa degli ingenti debiti che s'erano accumulati presso la Banca d'Italia. Visse nel silenzio e in totale povertà l'ultima parte della sua vita a Lecce, presso una cognata.

Ma se la sua persona fu messa in disparte e quasi dimenticata, la sua opera innovatrice, anche nella lotta alle zanzare portatrici dell'infestante malaria, ebbe invece risonanza nazionale, tanto che vennero in visita a Frigole le più alte personalità del Governo di Roma, sia del settore agricolo sia del settore sanitario, che ammirarono il “modello” realizzato da Libertini e inserirono tutto il territorio nella grandiosa bonifica nazionale del primo decennio del 1900.

Nell'ottobre del 2023 fu intitolato a Federico Libertini il Centro sociale di Frigole con l'apposizione di una targa presso l'ingresso. Sulla valorizzazione della figura del lungimirante e sfortunato bonificatore, determinanti sono risultati le ricerche, gli scritti e le conferenze del prof. Franco Antonio Mastrolia.

La Posidonia spiaggiata: un problema da risolvere o una risorsa da valorizzare?

Chi frequenta le spiagge di Frigole avrà sicuramente notato quei grandi accumuli di materiale vegetale, spesso scambiati per semplici alghe, che si depositano lungo la battigia. Si tratta di Posidonia oceanica, una pianta marina fondamentale per l'ecosistema del Mediterraneo. Ma perché questi depositi vegetali, spesso rimossi dalle spiagge, sono così importanti? E perché dovremmo riconsiderare il nostro rapporto con essi?

Dietro l'apparente semplicità di un'alga si cela la complessità di una pianta superiore che, con le sue radici, le sue foglie e i suoi fiori, crea rigogliose praterie sottomarine, le quali agiscono come veri e propri polmoni blu. Esse producono una grande quantità di ossigeno, migliorano la qualità dell'acqua e mitigano gli effetti dei cambiamenti climatici. Inoltre, offrono cibo e rifugio a un'infinità di specie marine, dalle piccole creature planctoniche fino a pesci di interesse commerciale.

Ma veniamo al problema: i posidonieti producono grandi quantità di biomassa, e questo materiale organico, costituito principalmente da foglie e rizomi, viene progressivamente depositato sulle spiagge, formando le caratteristiche “banquettes”. Ma è giusto ritenere tali depositi strutturati e permanenti di foglie di posidonia spiaggiata un problema? Questi accumuli di materiale vegetale attenuano la forza delle onde e trattengono la sabbia, contribuendo a consolidare i litorali sabbiosi. I residui fibrosi di foglie e rizomi, inoltre, oltre a stabilizzare i fondali marini, vengono trasportati dalle correnti e si aggregano formando le caratteristiche egagropili, vere e proprie sfere organiche note anche come "polpette di mare" o "patate di mare". Queste strutture, dal nome evocativo che richiama i peli aggrovigliati di una capra selvatica (dal greco αἴγαγρος, "capra selvatica", e πῖλος, "peli ammassati"), svolgono un ruolo ecologico fondamentale: accumulando materia organica e ospitando una ricca comunità di piccoli invertebrati come isopodi, anfipodi e policheti, contribuiscono alla fertilità dei litorali e alla biodiversità marina.

Le praterie di Posidonia si sviluppano preferibilmente su fondali sabbiosi e poco profondi, dove radici, rizomi e foglie si intrecciano formando delle vere e proprie “matte” che possono raggiungere diversi metri di spessore. Nel corso dei secoli, questi accumuli di materiale organico danno origine a estese barriere sommerse, parallele alla costa, che offrono una protezione naturale contro l'erosione marina. La Posidonia oceanica è una pianta longeva: in assenza di disturbi antropici, le praterie possono raggiungere età millenarie. La loro crescita lenta e costante, unita alla loro capacità di consolidare i sedimenti, fa delle praterie di Posidonia un elemento chiave per la protezione e la conservazione dei nostri litorali.

Tuttavia, la Posidonia viene spesso percepita come un fastidio dai bagnanti e rimossa dalle spiagge per motivi prevalentemente estetici. Questa pratica, però, ha conseguenze negative sull'ecosistema costiero, accelerando l'erosione e impoverendo la biodiversità. Per questo motivo è fondamentale comprendere che la presenza di Posidonia sulle spiagge non è un problema, ma rappresenta una risorsa. Le banquettes, infatti, creano un ambiente naturale e dinamico, offrendo riparo a molte specie e contribuendo anche alla bellezza del paesaggio costiero.

La Posidonia non è solo un bene ambientale, ma anche una risorsa economica. Con il loro contributo nella protezione delle coste, le praterie di Posidonia evitano costosi interventi di ripascimento. Si stima che gran parte dei litorali sabbiosi del bacino mediterraneo sia in erosione, cioè con molti chilometri di spiagge in arretramento che minacciano beni, strutture e risorse naturali. Secondo la Fondazione ambientalista Marevivo, i costi di ricostruzione delle spiagge mediante ripascimento raggiungono cifre elevate, oscillando tra i 1.600 e i 2.100 euro per metro lineare di fronte spiaggia. Tuttavia, questo intervento rappresenta solo una soluzione temporanea e costosa, che non affronta le cause profonde dell'erosione costiera. Altri studi citati dalla stessa Organizzazione mostrano come in un'area turistica, ogni metro quadrato di spiaggia generi una resa economica annua compresa tra i 1.000 e i 4.000 euro. La scomparsa di un metro di spessore della prateria di Posidonia, quindi, corrisponde ad un arretramento di circa 20 metri di spiaggia, con un danno economico stimato tra i 20.000 e gli 80.000 euro annui. È evidente che la perdita delle praterie di Posidonia comporti un impatto economico devastante sulle attività turistiche e sulla valorizzazione del territorio. Al contrario, il restauro di un metro quadrato di prateria, pur richiedendo un investimento iniziale di circa 800-1.000 euro, garantisce a lungo termine un ritorno economico e ambientale significativamente superiore.

La Posidonia oceanica è riconosciuta a livello europeo e internazionale come specie protetta. Tuttavia, per garantire la sua sopravvivenza, è necessario intensificare gli sforzi di tutela. Ciò implica una maggiore consapevolezza pubblica, pratiche di gestione costiera più rispettose, un rafforzamento del quadro normativo e un maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle attività di conservazione. La condizione attuale delle praterie di Posidonia è allarmante: stanno diminuendo o sono addirittura scomparse in molte zone della costa italiana, dove un tempo erano diffuse. Questo declino è causato principalmente da attività umane come la pesca a strascico, che può rimuovere e distruggere ampie aree di prateria; il raschiamento delle ancore delle barche da diporto; la cementificazione delle coste, inclusa la costruzione di strade, porti, opere di consolidamento e l'estrazione di sabbia; e l'inquinamento da sostanze chimiche scaricate in mare. Un impatto significativo è anche dovuto al cambiamento climatico, che sta alterando in modo rilevante le correnti atmosferiche e marine, oltre a modificare le condizioni di temperatura, salinità e composizione del mare in cui vive la Posidonia. Inoltre, tra le cause indirette della riduzione delle praterie sottomarine, è rilevante anche la presenza di specie antagoniste, come la Caulerpa taxifolia, e di molti organismi invasivi o alieni, provenienti da altri ambienti marini per varie ragioni. A peggiorare ulteriormente questa situazione, la classificazione della Posidonia spiaggiata come rifiuto ha portato nel tempo a pratiche di gestione spesso dannose per l'ambiente, come la sua rimozione dalle spiagge, impedendo così il naturale ciclo di erosione e deposizione dei sedimenti che contribuisce alla formazione delle dune e alla protezione della costa. Tuttavia, la normativa nazionale e internazionale si sta adeguando, riconoscendo oggi il ruolo fondamentale di questa pianta marina nella conservazione del litorale Il mantenimento delle banquette in loco è la pratica più sostenibile, ma altre soluzioni, come indicato dalle linee guida ministeriali, possono essere adottate a seconda delle specifiche condizioni del paesaggio costiero. Le banquette di Posidonia sono un segno distintivo di Frigole, un'espressione della sua autenticità.

È tempo di ridefinire il nostro concetto di spiaggia ideale, scegliendo luoghi come questo, dove la natura selvaggia, rappresentata dalle praterie di Posidonia, incontra la mano dell'uomo. Proteggere questo ecosistema prezioso è necessario per garantire un futuro sostenibile al nostro litorale.